venerdì 28 novembre 2025

Speciale tre anni di blog. Retelling: gli scrittori sono davvero tenuti all'originalità?


Questo post avrei potuto intitolarlo "storia di come Marty aveva scritto più di mezzo articolo e poi l'ha cancellato per impostarlo in un altro modo", ma sarebbe stato troppo lungo.

Nella bozza che avevo già scritto, all'inizio attaccavo il solito pippone sul perché ho deciso di sproloquiare su questo argomento, ma poi ho deciso che non era così importante. Non mi interessa e suppongo che non interessi nemmeno a voi sapere cose già note su video pubblicati sui social che hanno attirato critiche basate sul nulla e quant'altro, quindi vorrei focalizzarmi su altro.

Gli esseri umani raccontano storie da sempre. Prima tramite dipinti rudimentali sulle pareti delle grotte, poi tramandandosele oralmente, infine leggendole o vedendole trasposte su pellicola. All'inizio magari era solo una pura questione di insegnamento, vedere come si poteva cacciare un mammut in gruppo o anche solo banalmente sapere che se sei cattivo farai arrabbiare un'entità soprannaturale che vive in cielo; in tempi più recenti la questione si è fatta un po' più complessa: la scuola pubblica è diventata accessibile a tutti, anzi è addirittura obbligatoria (con tutti i problemi del genere, ma non aprirò qui il discorso su quanto spesso il sistema scolastico soprattutto qui in Italia sia inadeguato alle esigenze del singolo studente e tenda a generalizzare un po' troppo il suo piano di studi), quindi le storie non sono diventate più una mera questione di apprendimento. La "morale della favola" è importantissima, per carità, ma non è più la cosa più importante. Accanto, c'è la componente "intrattenimento". In questo mondo sempre più globalizzato, anche grazie all'uso dei social, vogliamo divertirci, svagarci, staccare il cervello dai problemi della nostra società (e soprattutto negli ultimi tempi non sono pochi).

Gli esseri umani raccontano storie da sempre, ed esistono su questa roccia fluttuante nel nulla da milioni di anni. Quindi un autore che si approccia alla scrittura nel 2025, con tutto questo bagaglio di Storia a pesargli sul groppone, può aspirare a essere originale?

Giulia Calligola, nella sua introduzione al romanzo "il giudizio di Persefone" esordisce con una frase lapidaria: "rivisitare una storia conosciuta è molto più complesso che crearne una da zero", per proseguire poi più avanti dicendo che "il bello dei miti è [che] vengono raccontati da così tanto tempo perché funzionano; sono tanto simbolici ma anche tanto adattabili ad ogni tipo di mentalità ed epoca [...]".

E secondo me la chiave dei retelling sta tutta qui: trovare un messaggio in una storia antica, già nota, che può essere ampliato, riscritto. Il bello dei retelling è che partono da una base conosciuta per veicolare un messaggio diverso dal solito pur raccontando una storia già conosciuta. Che in buona sostanza è esattamente quello che succede anche coi romanzi "originali": sfruttano degli archetipi che esistono dall'alba dei tempi per arrivare a un punto clou, una morale che viene raggiunta. Quello che cambia è come viene raggiunta.

L'odio per i retelling secondo me nasce sui banchi di scuola. Lì i libri vengono fatti entrare in due categorie: i classici immortali, i libri belli oltre ogni possibile dire dei quali non si può dire nemmeno una sillaba negativa, e tutti gli altri. In "tutti gli altri" rientra la qualunque; a parte forse una breve parentesi che viene fatta alle medie sui vari generi letterari, qualsiasi altro tipo di libro viene snobbato in favore di autori morti almeno un secolo fa e dei quali la recensione è sempre, indiscutibilmente, "questo libro (ma al posto di libro potete metterci anche poema, componimento o qualsiasi altra cosa vi possa venire in mente, NdR) è bellissimo", seguito da pipponi sulla metrica, sulla scelta di una parola rispetto a un'altra e nozioni inutili sulla vita dell'autore che gli studenti si saranno dimenticati il secondo dopo che l'interrogazione sarà finita.

Anzi, io sono qui per fare l'avvocato del diavolo: se leggessimo alcuni libri senza il pregiudizio che ci viene inculcato a scuola, troveremmo la maggior parte dei suddetti noiosa. Oltre al fatto che leggeremmo molto di più e molto volentieri. Non sono qui a dire che la scuola sia responsabile del fatto che in Italia il 30% dei lettori legge solo qualche volta l'anno (e i lettori forti sono di conseguenza meno), però ho perso il conto delle persone vicine a me, in periodo scolastico, che mi hanno detto "mi piacerebbe provare a leggere, ma la scuola mi ha fatto passare la voglia".

Gli autori quindi sono tenuti a essere originali? No. Nessuno lo è, nessuno lo è mai stato. Gli stessi miti greci ci sono pervenuti in molte versioni diverse, e io continuerò a considerare l'Orlando Furioso il primo retelling che può essere considerato tale, nonché seguito dell'Orlando innamorato di Boiardo.

Ma ora arriviamo alla parte divertente: io sono qui invece per consigliarvi dei titoli che vi facciano cambiare idea se pensate che i retelling siano solo dei porno di bassa qualità scritti da gente con poche idee che non abbia idea di come si scriva un libro... ma ci sarà spazio anche a qualche critica al genere, perché il contraddittorio in queste situazioni è fondamentale.

Il primo titolo che mi sento di consigliarvi è ovviamente la dilogia di Engaged, quella che ha dato il via al mio sproloquio che ora siete costretti a leggere (e senza quel video in cui la consigliavo in quanto "Rodrigo è innamorato di Renzo e Lucia è una strega", probabilmente la mia vita adesso sarebbe leggermente diversa). In maniera un po' più seria, di questa storia posso dirvi che sono coinvolti angeli, demoni, una macchina metafisica alimentata dalla magia, lupi mannari e una cura nei dettagli filologici e storici della vicenda che mi ha commossa. Il tutto riesce a mescolarsi bene alla trama avvincente che riesce a reggere bene il ritmo e a tenere chi legge incollato alle pagine (qui vi lascio la recensione del primo volume e qui quella del secondo).

Ovviamente se si parla di retelling non si può non citare "Il giudizio di Persefone" e "Lore Olympus", rispettivamente un romanzo e un web comic incentrati sul mito di Ade e Persefone. Il primo in particolare è una diretta conseguenza del secondo, quindi a un livello superficiale la trama potrebbe sembrare la stessa, ma se Lore Olympus prende una trama parecchio cupa con il potenziale ritorno di Crono a scompigliare le carte (non mi sono dimenticata, tra l'altro che devo scrivere la recensione alla terza stagione, con una lentezza esasperante sto finendo di leggere il fumetto quindi prima o poi arriverà. Non so quando ma arriverà), il giudizio di Persefone invece si concentra di più sull'aspetto giuridico della vicenda e accenna ad altri miti come quello di Orfeo ed Euridice, con due novelle a corollario che approfondiscono ulteriormente dei personaggi secondari che nel romanzo principale non avevano spazio per essere inseriti più di tanto.

Una saga che ricordo sempre con piacere è quella di "parole di luce" di Joanne Harris incentrata sulle leggende nordiche: il mio amore per la mitologia norrena (che in futuro approfondirò senz'altro) è nato tra quelle pagine, e se Loki è una delle mie divinità preferite lo devo sicuramente a quei libri ("Il canto del ribelle" è una vera e propria chicca, ho scoperto di recente che è uscito anche un seguito e lo recupererò al più presto); mentre se è il folklore russo che vi interessa allora c'è "l'orso e l'usignolo", primo volume di una trilogia che voglio assolutamente continuare (ho una voglia matta di continuare questa serie, nel frattempo qui trovate la mia recensione) che riprende una leggenda di quelle terre brulle e gelide.

Aprendo la parentesi "Good Omens" si tocca un tasto dolente per le vicende che hanno coinvolto uno degli autori, ma se vogliamo basarci solo sull'aspetto artistico della questione, questo è un must have per gli appassionati del fantasy. E sì, io lo considero un retelling. Se tu prendi una storia già esistente in cui gli eventi e alcuni dei protagonisti sono chiamati nello stesso modo, ma vengono aggiunti altri personaggi nuovi, io lo considero un retelling in piena regola.

Spesso se sentiamo la parola "retelling" pensiamo alla mitologia greca, perché libri tipo "la canzone di Achille", "cantami o diva" e quant'altro hanno segnato (e continuano a segnare) una pagina molto importante della letteratura contemporanea (nel bene e nel male), ma non sono il solo tipo di riscrittura che esiste. Una delle letture più recenti che ho affrontato infatti riprende la fiaba di Andersen "La piccola fiammiferaia" e la riscrive in chiave moderna, trattando il delicatissimo tema della salute mentale e di come spesso preferiamo girarci dall'altra parte piuttosto che affrontare il dolore psicologico di chi ci sta accanto. Sto ovviamente parlando di "cinque fiamme azzurre" di Marta Pesci, anche di questo trovate già la recensione sul blog a questo link. Dico solo che ho pianto anche solo scrivendo l'articolo, cosa che mi succede raramente per non dire mai.

Un romanzo che a me personalmente non ha fatto impazzire ma che comunque vi consiglio perché non si sa mai che possa trovare il suo pubblico è "L'ora dei dannati" di Luca Tarenzi: a me non è piaciuto perché ho trovato lo stile prolisso e iper-descrittivo (nel senso che per descrivere una cavolo di parete di roccia venivano impiegate una cosa come due righe e quattro aggettivi) però mi rendo conto che la storia di base è interessante e anche se io non sono riuscita ad andare oltre il primo volume mi rendo conto che a molti potrebbe interessare; gli stessi problemi, più o meno, li ho constatati anche in "L'uncino di Pan" di Franz Palermo: l'idea di riscrivere la storia di Peter Pan dal punto di vista di Uncino, spiegando le motivazioni per cui è diventato il cattivo della storia, era un'idea a mio parere ottima, ma sviluppata non al meglio delle sue possibilità, secondo il mio gusto personale. Si perde troppo tempo con lo show don't tell, deviando la trama dal suo focus principale e riducendolo di fatto alla seconda metà del libro e dilungandosi troppo nelle descrizioni delle sensazioni laddove la trama avrebbe esatto dei passaggi più asciutti e veloci.

Ovviamente l'argomento sarebbe molto più ampio (mi piacerebbe, per esempio, aprire l'argomento delle fan fiction, che a loro modo riscrivono un canone noto, spesso tappando dei buchi che si sono creati nella storia principale, magari ne parlerò in futuro, troverò un modo di discutere l'argomento senza dire cose senza senso) e temo che non possa essere sviscerato in un solo articolo, quindi probabilmente ci tornerò sopra in futuro, quando avrò avuto più tempo per approfondire meglio la questione e avrò letto ancora più libri da potervi consigliare o di cui potervi parlare male.

Quindi, le mie conclusioni (che alla fine sono un po' le stesse che avevo già detto nello speciale dell'anno scorso) sono: gli autori non sono tenuti a essere originali, non ci sono dei libri che sono meno validi di altri solo perché appartengono a un dato genere. Esistono libri scritti bene e scritti male, e i retelling sono tanto importanti quanto tutti gli altri, lo trovo molto riduttivo pensare che tutti siano scritti male solo perché una volta magari avete letto un libro brutto.

martedì 11 novembre 2025

"Cinque fiamme azzurre", di Marta Pesci

 

Anna ha i capelli azzurri, proprio come i suoi occhi. I bambini a cui fa fare i compiti il pomeriggio li adorano, perché somigliano ai muri della loro scuola.

Anna ha un fidanzato, che la ama nonostante i rotolini "di troppo" che le circondano i fianchi, che però non ha sempre tempo per lei. Deve dipingere, concentrarsi sul suo sogno.

Anna ha un'amica, Vittoria, che però è fidanzata e non sempre ha tempo per lei. È Manuel la sua priorità e anche la sua carriera universitaria.

Anna ha una mamma che la supporta sempre nonostante tutto. È stata la fan numero uno dei suoi capelli azzurri, ha pregato per lei insieme alla nonna malata di Alzheimer e sicuramente la supporterebbe anche sapendo che è stata licenziata dal suo lavoretto al doposcuola, se solo Anna volesse confidarsi con lei. Ma Anna non lo fa, non vuole caricarla di un ulteriore peso, con tutti i pensieri che ha già.

Anna ha un sogno: diventare insegnante. E ha anche la possibilità di realizzarlo: è stata contattata da una scuola privata e il colloquio è andato bene, nonostante la domanda difficile che le sia capitata.

La vita è incrinata, e il colpo di grazia le viene dato, il giorno del suo compleanno: vorrebbe festeggiarlo insieme alle persone a cui vuole bene, ma la mamma è lontana, ha litigato con Gian e Vittoria le dà buca all'ultimo. La ciliegina sulla torta è il risultato del concorso: Anna scorre i nomi con avidità per scoprire che è arrivata ultima. Le sue speranze si sono sbriciolate di colpo sotto ai suoi piedi. Esce di casa, va nel suo posto preferito di Milano, ai Navigli, sale su un ponte e si sporge.

Anna si suicida. Ha perso ogni ragione di vivere, l'aggancio di Gian per diventare un artista affermato ha realizzato un'installazione di arte contemporanea di una sirena che palesemente ha le sue fattezze ed è legata a un cappio, il suo fidanzato la ignora, la sua migliore amica la trascura e il lavoro va male.

Anna viene vista da un gruppo di ragazzi che però non hanno fatto niente per salvarla, nonostante avrebbero potuto sporgersi e afferrarla.

Anna è morta. Si ritrova sotto forma di spirito incorporeo ad affrontare cinque fiamme di cinque persone che sono state importanti per lei: il fidanzato, la migliore amica, la mamma, il datore di lavoro e la nonna. Cinque fiamme che illuminano il suo cammino verso mondo dei morti e della pace eterna: cosa ci sarà dopo non è dato saperlo, la fede in un oltretomba in cui l'anima vive per sempre oppure nel nulla cosmico sta al lettore; l'importante è il viaggio che porta Anna a capire che in realtà non era sola come pensava e a chi rimane in vita a porsi delle domande. Avrebbero potuto aiutare Anna, se lei si fosse aperta? I segnali c'erano stati e loro non sono stati in grado di coglierli? E se il giorno del suo compleanno le avessero organizzato la festa che si meritava? Se le fossero rimasti accanto quando lei aveva più bisogno di loro? Se non l'avessero licenziata proprio in uno dei momenti in cui era più fragile?

Ma in tutto ciò la luce più luminosa è quella della nonna: alla nonna si può dire tutto senza paura che ti giudichi, la nonna non avrà mai parole cattive da rivolgerti e anche quando ti dà degli insegnamenti di vita lo fa nella maniera più genuina possibile, non come un rimprovero, ma come un suggerimento di una persona che ha vissuto più a lungo di te e di difficoltà ne ha accumulate un discreto bagaglio. Perché nei momenti bui, la nonna è sempre la nonna.

Questo libro è stato definito una riscrittura della"piccola fiammiferaia" in chiave moderna, perché la protagonista si affanna per cercare di far capire a chi le sta intorno che sta male, ma chi le sta intorno lo capisce solo quando è troppo tardi e cerca di mettere una pezza alla situazione, e io non posso che essere d'accordo. Oltre ai parallelismi evidenti, come la presenza delle fiamme e la figura importantissima di una nonna con cui la protagonista affronta il viaggio verso la morte più "definitiva", la fiaba di Andersen mi ha sempre riempito di tristezza, da bambina, quando me la leggevano, mi chiedevo come la gente potesse essere così insensibile davanti a una persona che stesse così evidentemente male, ma con "cinque fiamme azzurre" e la mia mentalità da "adulta" ho finalmente realizzato che il malessere di chi ci circonda non è quasi mai così palese, è vero, ma ci sono dei segnali che sta a noi cogliere.

Come mi accadeva con "la piccola fiammiferaia", anche qui ho avuto il magone a più riprese, per poi scoppiare definitivamente a piangere sul finale, perché quando si parla di nonni ho il cuore di panna e non riesco a trattenere i lucciconi agli occhi.

Un paio di difettucci piccoli piccoli che mi vergogno quasi di menzionare, perché questo libro è bello bello. Alcune frasi nella seconda metà sono un po' contorte e ho dovuto rileggerle più volte per riuscire a capirle. E poi c'è Alberto, il datore di lavoro di Anna, che in un paio di occasioni diventa Antonio.

E basta, io non ho niente da aggiungere. Sono in una valle di lacrime anche solo scrivendo la recensione e so che queste poche parole sconclusionate non hanno saputo rendere appieno giustizia a questo libro, ma spero di avervi comunque fornito delle basi per stuzzicare la vostra curiosità e andare a leggere questo libro immediatamente.

venerdì 31 ottobre 2025

“La caccia del wendigo”, di Marco Romani

 

AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Basta, recensione finita, ciao a tutti. Leggete questo libro, è bello.

Ovviamente scherzo. Che burlona che sono...

Grazie Marco, grazie Delrai per avermi chiesto di collaborare per la lettura di questo romanzo, sono troppo emozionata. Ero emozionata anche prima di leggerlo, quando mi è stato molto timidamente chiesto "ti andrebbe di leggere in anteprima il Wendigo?"; lo ero anche prima che mi venisse proposta la collaborazione, vedendo la passione con cui l'autore ne parlava e vedendo quanto ci teneva che il lavoro venisse fuori fatto bene. È venuto bene? (Spoiler: sì.)

Di solito quando mi approccio all’horror ritengo il mio cervello più “forte dei miei occhi”… o viceversa, è una cosa che faccio molta fatica a spiegare. Se guardo un film è più facile che mi inquieti, i jump scare mi devastano, per quanto prevedibili, la vista di dosi eccessive di sangue mi danno il voltastomaco. Coi libri è più difficile che mi succedano queste cose, riesco a essere più “passiva” e a lasciarmi scorrere addosso certe scene con più semplicità.

Ma questo libro, questo libro (!), mi è strusciato sottopelle, mi si è insinuato nel cervello, mi ha fatto paura. Definirlo horror è riduttivo, è un libro strano, passi la metà del tempo a chiederti che cosa sta succedendo e cosa succederà in futuro e l'altra metà del tempo a vedere le immagini descritte e ad avere l'ansia. Il finale poi ha delle descrizioni degne del miglior body horror e si compiono delle scelte che forse non tutti gli autori avrebbero il coraggio di prendere.

La protagonista di questo romanzo è Suzanne, una giovane tirocinante di psichiatria che si reca a Laika (cittadina di montagna che deve tutta la sua fortuna a una famiglia di riccazzi borghesi) per un tirocinio presso l'ospedale locale. La premessa della storia è molto semplice (e mi permetto di palesarla senza il rischio di spoiler all'orizzonte, perché è fatta chiara alla fine del primo capitolo, leggete a vostro rischio e pericolo): Suzanne vuole farli fuori tutti.

La parte centrale è confusa, nel senso buono del termine. Visioni brutte con mostri e incubi, il sole che fa cose strane (spoiler senza contesto: eclissi di Berserk, prima leggete poi capirete), la protagonista che inzia a ricordarsi cose che in teoria non potrebbe sapere (dice per esempio di essere stata amica d'infanzia di un anziano signore che ha palesemente molti più anni di lei), e roba viscida che ricopre tutto e che solo la protagonista può vedere, ma vi prometto che a un certo punto avrà tutto senso.

È bello, per una volta, non avere risposte, ed è bello che per una volta l'unica risposta ammissibile sia "non lo so". La protagonista non sa se è l'odio che le circola in corpo ad accecarla a tal punto da farle venire una psicosi, se è vero che c'è un nemico là fuori che sta cercando di attirarla a sé o se è la paura che quel mostro potrebbe esserci a renderlo in qualche modo reale e a rendere più vera la sua psicosi.

I personaggi si pongono dei dubbi, sono realistici, hanno dei tratti condivisibili (io e Suzanne palesemente siamo sorelle separate dal tempo e dal fatto che lei purtroppo non è reale, crediamo entrambe di essere un peso per gli altri, di essere sempre di troppo, la nostra esistenza è basata costantemente sul "sei sicuro/a che non sia un problema se sto qui con te? Non ti disturbo? Sicurosicurosicuro?", testiamo sempre le persone che ci stanno accanto per vedere se ci stanno accanto solo per pietà o se hanno davvero piacere a stare con noi... ma abbiamo anche dei difetti, grazie Marco per averla creata, mi sento un po' meno sola), usano quel cervello che si sono trovati in mezzo alle orecchie e trasformano i "non lo so" in "lo so" e anche se la risposta continua a essere "non lo so" è normale che sia così, perché si sono trovati davanti a qualcosa di più grande di loro.

Il tipo di orrore che si annida in queste terre non è (solo) visivo, ma più psicologico, ti entra nel cervello e tu stesso sei portato a chiederti se quello che stai leggendo è vero o solo una psicosi che immancabilmente ha colto anche te. Quando poi tutto inizia ad avere una spiegazione, è piacevole lasciarsi sorprendere da quanto tutto abbia una sua logica e un senso.

Avrei preferito avere un approfondimento in più su un ordine di... qualcosa di cui fa parte uno dei protagonisti (no spoiler, giuro), per avere un approfondimento più grande di due personaggi in un colpo solo, però le informazioni che ci vengono date sono funzionali alla trama, quindi tutto considerato non mi posso lamentare.

Avviso ai naviganti: lo stile è molto descrittivo. Forse a volte pure troppo (ogni minima azione ti viene spiegata, anche quando vengono lavate le tazze in cui le protagoniste hanno preso il tè), ma se l'alternativa è lo show don't tell a me va benissimo così. Meglio avere una spiegazione logica e dettagliatissima per tutto che esser bombardati di termini che il lettore non può sapere con la promessa di un "non ti dico subito cosa sta succedendo perché tanto poi te lo mostro". E non fraintendetemi, non vuol dire che ti venga spiegato tutto subito: i misteri ci sono, sono un tarlo che corrode il cervello e, come dicevo, i "non lo so" si sprecano, per buona parte del libro. La pappa pronta non piace a nessuno. Per lo meno, a me no, se non c'è un minimo di tensione (a maggior ragione in un horror) mi annoio facilmente. E con questo libro non mi sono annoiata nemmeno per un secondo.

E ora sciò, via, uscite dal mio antro oscuro e andate a leggere questo libro. Non ve ne pentirete.

domenica 26 ottobre 2025

"Dammi un fiume di noia", di Carlo Vicenzi

 

Un po' troppo? Forse. Ma su questo libro ho troppe cose da dire, e avviso già da subito i naviganti che non tutte saranno cose positive (ahimè, le cose positive saranno molto poche).

Anzi, sapete cosa? Gli aspetti positivi ce li togliamo subito, così poi posso concentrarmi sul rosicamento di fegato che mi sta corrodendo da giorni. Hein e Ma'Ohr sono dei bei personaggi, e hanno un bel rapporto mentore-allievo, anche se si ha troppo spesso la tendenza di interrompere i discorsi importanti per quel pretesto che ci portiamo dietro da Harry Potter in avanti, che è: "ai fini della trama non è importante che il lettore sappia tutto adesso quindi mi invento una supercazzola per cui il mentore non spiega tutto subito all'allievo nonostante l'allievo gli ponga delle domande dirette a cui il mentore potrebbe rispondere in maniera esaustiva in 0.2". Però giuro, sono dei bei personaggi, ben caratterizzati e che hanno delle reazioni plausibili.

Lo stile non ha guizzi particolari. Il lato positivo è che non fa totalmente schifo, il lato negativo è che  non ha guizzi, quindi rischia di risultare noioso per la sua banalità, a maggior ragione se si considera che i personaggi, ad eccezione dei due che ho nominato prima, sono macchie sullo sfondo, tutti descrivibili con un aggettivo stiracchiato (sì, sto parlando anche e soprattutto di Déa), usati come riempitivo per far vedere come il protagonista abbia un gruppo di amici affiatati (forse nel tentativo di mettere in piedi una found family, non lo so) e che non è il solito eroe solitario contro tutto e tutti. E per carità l'intento è nobile, ma dev'essere fatto bene.

A partire da Déa, la Mary Sue delle Mary Sue, lei è brava perché è testarda, è una delle poche che non ha dei poteri, al contrario della maggior parte della gente del suo gruppo (mh), lei che per questo ha imparato a cavarsela da sola a causa della vita di stenti che ha vissuto, lei ha sempre le idee brillanti, tutti la stimano, tutti la tengono in gran considerazione e tutti la seguirebbero anche in mezzo al fuoco per lei. Hein invece viene fatto passare per quello che è meno affidabile perché ha una personalità... 


Ma tranquilli che ne ho una per tutti gli altri personaggi. A partire da Galeu, la palese brutta copia di Choji di Naruto, la cui unica personalità è "deve mangiare tanto per usare il suo potere". E basta. E a me la cosa fa arrabbiare, perché in un romanzo in cui i personaggi ricorrenti sono cinque o sei, il fatto che uno solo abbia una personalità non riesce a farlo durare per seicento pagine senza rischiare di annoiare.

A maggior ragione se lo stile è mediocre come accennavo prima.

O Zadie, la cui unica utilità è far venire il durello al protagonista per poi crepare male per fargli venire il senso di colpa per no essere stato abbastanza bravo da prendere il suo posto in un'Ordalia.

Oppure ancora (e giuro che dopo questa ho finito) Mathias, l'Elend Venture dei poveri, un nobile impacciato che era timidissimo da piccolo (con tanto di colpo di fulmine per Déa e conseguente timidezza aggiuntiva)

Ora arriviamo alle note dolenti, ma dolenti sul serio. Perché questa cosa mi ha fatta arrabbiare. L'autore nei ringraziamenti dice: "[...] vorrei aggiungere una specie di “post-dedica”, per tutti quelli che, come il sottoscritto, sono cresciuti a colpi di manga, anime, videogiochi e tutte quelle cose che i nostri genitori ritenevano “diseducative”. Questo libro è una lettera d’amore di quasi seicento pagine per quelle opere che mi hanno cresciuto, un po’ su Italia 7 prima di cena, un po’ su Mtv il martedì sera. Per non parlare di pagine su pagine piene di vignette da leggere al contrario. Sì, questo libro ha molte strizzate d’occhio a quelle storie. Sono curioso di vedere se qualcuno riuscirà a trovarle tutte." Io di citazioni alla cultura pop non ne ho trovate, oltre a quella di Choji che era palese, non ci ho fatto caso e sinceramente non mi interessa nemmeno trovarle, perché tutta la mia attenzione era focalizzata su un elemento solo: la struttura e il sistema magico attingono a piene mani dal Cosmoverso di Sanderson.

L'autore ha voluto omaggiare un pilastro della cultura fantasy che da circa venti-trent'anni opera in questo ambito? Sicuramente, ma a un certo punto questi omaggi stufano. Innanzitutto, il sistema magico riprende palesemente l'allomanzia nella modalità in cui è descritto. I personaggi, infatti, hanno una sorta di energia all'interno di loro, a cui attingono e che ha effetti diversi per ognuno, e si chiamano Marchiati. C'è chi va più veloce, chi riesce ad assorbire e cedere le ferite del corpo (come non si capisce, di base lo trovo un potere inutile, ma è un potere importante ai fini di trama quindi con il potere della supercazzola va bene). Addirittura ci sono dei personaggi, i mangiasangue, che in qualche modo riescono ad assorbire il potere dei Marchiati. Emalurgia portami via. I Marchiati, dal canto loro, attingono al loro potere semplicemente mangiando. Da dove arrivi il loro potere, perché alcuni ce l'abbiano e altri no, perché basti mangiare abbastanza e un buon allenamento per usare il proprio potere, perché i Marchiati sviluppino i poteri a dieci anni (non prima, non dopo) non si sa. O magari viene spiegato, sono io che mi sono stufata prima di leggere e mi sono persa le descrizioni importanti.

Poi la struttura del libro è frammentata: un capitolo, massimo due, alla volta viene dedicato al presente, poco dopo un cataclisma che ha devastato la città in cui è ambientata la storia (che fa parte di un Impero molto sandersoniano, again), mentre un capitolo, massimo due, alla volta è dedicato ai flashback del passato dei personaggi. Come... rullo di tamburi... esatto, come la Folgoluce. E il problema in questo caso è che, essendo i personaggi tutti dimenticabili tranne due, i flashback risultano molto ripetitivi, con Hein che è un testone che crede di sapere già tutto, e Ma'Ohr (che io ho continuato a chiamare Ore'Soeur per un bel pezzo, dai è troppo simile per essere un caso...) continua a bacchettarlo perché in realtà non sa niente, mentre Zadie lo prende goliardicamente in giro. Per il punto in cui sono arrivata non si intravede un vero miglioramento che porti i personaggi dal punto in cui li vediamo nel passato al punto in cui li vediamo nel presente.

Ah sì, dimenticavo: a un certo punto la trama ha iniziato a diventare prevedibile, quindi ho saltato le pagine. A che pro leggere seicento e passa pagine di roba che sai già dove andrà a parare? Io tollero quasi tutto nei fantasy ma non la prevedibilità. Non in un dark/epic fantasy.

E ora arriviamo al gran finale. Il finale dovrebbe essere cupo, drammatico, epico e tante altre cose belle. Ma io l'ho trovato frettoloso ai limiti del ridicolo, e lo intendo in senso letterale del termine. Perché io ho letto l'ultimo capitolo e sono scoppiata a ridere. Il libro contiene parecchi controsensi (a partire dal fatto che il padre alcolizzato dei due ragazzi, un secondo dopo essere diventato sobrio, inizia a lavorare in un birrificio. Mi chiedo cosa mai potrebbe andare storto...) ma il più grande è sul finale.

Da qui in avanti farò spoiler, leggete a vostro rischio e pericolo.

Quando Hein e Déa si scontrano, lui ha l'occasione di ucciderla grazie al suo Marchio che gli dà la possibilità di essere velocissimo. Ma invece di ucciderla decide di mutilarla per renderla inoffensiva. E fin qui poteva andarmi bene, ma commette due errori: il primo è di decidere di lasciarla a terra sanguinante con la promessa di un "torno dopo", probabilmente non rendendosi conto che "dopo" sarebbe stato troppo tardi, con ferite del genere a tutti e quattro gli arti; il secondo, e per me questa è la supercazzola più grande, è che si china a dare un bacio alla sorellina per dimostrare che ci tiene ancora a lei, nonostante tutto. Facendo ciò, lei sfrutta il loro contatto per usare il potere che ha assorbito da Zadie per trasferire a lui le sue ferite e abbandonarlo a terra sanguinante. Il libro finisce con lei che probabilmente si accinge a compiere una strage di civili e lui che probabilmente morirà dissanguato. Il tutto perché lui da bambino era rimasto traumatizzato dalla morte di Zadie. Un personaggio inutile, il cui unico scopo era fargli venire il durello e traumatizzarlo. Ma questo forse l'ho già detto, quindi mi sto ripetendo. Doveva essere un finale forte, io avevo le lacrime agli occhi dal ridere che mi sono fatta.

In sintesi, questo è un libro che non ha senso, che mi ha dato il nervoso e mi ha suscitato ben poche emozioni, se non sulle battute conclusive. Qualcuno mi ridia il tempo che ho perso leggendolo.

domenica 28 settembre 2025

"Acque oscure", Debora Parisi

 

Questa lettura nasce da una collaborazione, quindi ringrazio l'autrice per avermi fornito una copia cartacea del libro.

Questo volume lo volevo comprare da un po' perché sono una fanatica della Scozia e anche del folclore quindi ci vuole davvero poco per conquistarmi, ma siccome sono una testona non mi convincevo mai effettivamente a comprarlo. E facevo male, perché mi stavo perdendo un buon fantasy con un finale allucinante e dei personaggi tutto sommato ben costruiti (soprattutto quel cuoricino di panna di Willy, il mentore della protagonista).

C'è solo un piccolo problemino, in tutto ciò: il libro è troppo corto. E in alcuni punti pecca di alcune ingenutà dovute soprattutto al fatto che questo sia il primo romanzo scritto dall'autrice (ma che sono figlie soprattutto del primo difetto).

Quando dico che il libro è troppo corto, intendo dire che per il mio modesto parere doveva risultare un romanzo lungo almeno il doppio, soprattutto viste tutte le tematiche che vengono affrontate al suo interno. Si parla infatti di una storia d'amore (che sarebbe potuta essere molto più interessante, una sorta di "Romeo e Giulietta" in chiave fantasy e moderna, se sviluppata coi giusti tempi, ma che in questo modo risulta un pelino affrettata e i personaggi hanno un po' poca chimica insieme, tutto si riduce a lei che è "diversa da tutte le altre" perché le piace leggere e andare al cinema e lui che è un bono da paura perché ha gli occhi azzurri come il mare, tanto per fare un esempio), di traumi dati da disastri ambientali causati dall'uomo (si parla imfatti del crollo della diga del Vajont, e quel punto l'ho trovato molto profondo e toccante), di deformità, del non sentirsi mai veramente appartenenti a una comunità precisa in quanto la protagonista è per metà umana e per metà anguana, una sorta di biscia di mare del folclore scozzese. La carne al fuoco è tanta, e 211 pagine sono poche per poter rendere giustizia a tutti questi temi; ciò non toglie che riconosca il potenziale dell'autrice e che leggerò qualcosa di più recente scritto da lei. Una cosa che però in tutta onestà non ho capito è la formattazione del romanzo, perché ho spesso trovato frasi in corsivo messe un po' a caso (nel senso che non riportavano pensieri o flashback, e in alcuni casi metà di una parola era in corsivo mentre l'altra metà era in corpo) e non capisco se sia un errore che poi nella versione finale è stato corretto o se sia presente anche nella versione finita, spiegazioni a riguardo sono molto ben accette.

Le ambientazioni sono a mio parere la parte migliore del libro, in generale le atmosfere e le sensazioni che i personaggi provano sono vere e realistiche, riportate molto bene e aiutano a rendere i personaggi più veri, e questa è secondo me la vera forza di una storia che va bene più per gli adolescenti (a quindici anni probabilmente l'avrei amata) che per gli adulti, nonostante la sfilza di avvertenze elencate a inizio libro (quella credo sia indispensabile, e soprattutto credo che stia alla discrezione del lettore decidere se un libro è adatto a lui o no) ma che comunque mi ha fatto passare ore piacevoli in compagnia dei suoi personaggi.

sabato 23 agosto 2025

"Madonna nera" di Germano Hell Greco

 

Lo giuro: io con questo libro ci ho provato in ogni modo possibile. Però non mi è piaciuto manco per sbaglio.

Di solito quando un romanzo non mi piace cerco comunque di trovare almeno un lato positivo che mi faccia capire di non aver perso tempo e soldi, ma con Madonna Nera ho fatto una fatica immane per arrivare a pagina 155 su 237 per poi dichiarare la disfatta con la coda tra le gambe e il morale a terra.

Le cose che a mio parere non funzionano sono in linea (molto) generale due, da cui derivano tutte le altre: la prima è che l'elemento horror nel senso stretto del termine non è pervenuto, in due terzi di libro c'è mezza scena di tensione (che a me non ha messo per niente tensione, la cosa più inquietante di questo libro è la copertina) e la questione è morta lì; la seconda è che il libro contiene delle gravi sviste lessicali e grammaticali che non mi spiego sinceramente. E non intendo dire che ci sono dei termini dialettali sparsi per il romanzo, quelli mi vanno benissimo, sono pochi e rendono l'ambientazione più solida e coerente. Intendo dire che non c'è un nesso logico tra le azioni dei personaggi e quello che dicono, anche perché ho trovato che quello che dicono spesso non ha un senso logico, rendendo la lettura straniante e creando intoppi allo scorrimento del romanzo (esempio banale che mi viene in mente su due piedi: due delle protagoniste a un certo punto si trovano a un funerale e una delle due commenta all'altra qualcosa sul fatto che la trova carina coi capelli sciolti e sul fatto che il lavandino di casa sta arrugginendo, per poi mettersi a parlare di danze macabre e affreschi ecclesiastici. Durante un funerale. Va bene...).

Quindi questo libro che poteva (e doveva) essere un ottimo horror a base religiosa (mi rendo conrto che non sia la cosa più innovativa di questo mondo, ma quanto meno poteva essere interessante vedere una storia di questo tipo trasposta in un'ambientazione italiana nella provincia pugliese) è l'ennesimo libro prodotto con lo stampino, senza un guizzo e senza una personalità, che alla fine non ti lascia niente di che.

venerdì 15 agosto 2025

"Gods of the wyrdwood", un libro che mi ha convinta a metà

 

Questo libro mi ha convinta solo a metà? Dai, facciamo un po' di più. Diciamo il 65%.

Gods of the wyrwood è un libro boschivo, perfetto da leggere nel periodo autunnale per le atmosfere che propone e le tematiche che tratta, quando le prime piogge iniziano a spezzare l'afa estiva e la nebbia aleggia sulla Padania come un lenzuolo bianco... questo forse è solo un "privilegio" mio e di quei poveri disgraziati che come me hanno la sfortuna di ritrovarsi in questa landa desolata. Non mi convincerete mai che questo è un bel posto in cui vivere, non mi avrete mai.

Ma torniamo a noi, il libro si presta molto bene alla costruzione dell'ambientazione, come ho già detto, e dei personaggi, Il protagonista, Cahan, e il Trion Venn (in realtà nel libro ci si riferisce a Venn col pronome they/them, ma in mancanza di una soluzione migliore che non coinvolga la schwa utilizzerò il "lui" generico e sovraesteso) e la monaca Udinny sono i tre protagonisti di questo romanzo e sono tutti e tre ben costruiti, in particolare Venn che ha una morale solida e mi è piaciuto per la sua anima pura e gentile nonostante le sofferenze a cui sua madre l'ha sottoposto da sempre a causa del forte potere che ha manifestato e che lei vorrebbe sfruttare per guadagnare ancora più forza e incutere più timore ai suoi sudditi. Da quello che si capisce, il mondo è a forte struttura matriarcale, c'è un senso di appartenenza alla comunità e chi non si è integrato (per scelta o per sfiga) non è ben visto.

Anche la questione religiosa è particolarmente presente. Se non veneri l'unico Dio, Tarl-an-Gig, che ha preso il posto della moltitudine di dei del passato, sei guardato storto, le persone provano a indottrinarti per farti cambiare idea, e se le due cose (il fatto di non appartenere a una comunità e di non venerare nessun dio in particolare) coincidono, apriti cielo. Ed è proprio per questo che a me Cahan piace, nonostante ci metta un po' a farsi voler bene (e poi mi spiego meglio quando parlerò delle cose che non mi sono piaciute), perché lui è emarginato, ma non è che gli interessi molto. Ovviamente gli pesano le occhiatacce che gli abitanti di Harn, il paesello nei pressi del quale vive, gli rivolgono ogni volta che è costretto a entrarci per vendere le pelli dei suoi capi di bestiame morti o le altre cose che produce per guadagnarsi da vivere, ma alla fine ci ha fatto un po' pace. La sua famiglia allargata (non è che sia spiegato proprio benissimo, ma da alcune allusioni si capisce che i nuclei familiari non si riducono ai genitori e i figli, ma anche a più mogli e mariti che convivono insieme praticando il poliamore) era una "senza tribù", e lui ha proseguito questa "tradizione" anche dopo essere uscito dal monastero di Zorir che cammina nel fuoco (è proprio così il nome del Dio), il Dio nel nome del quale è stato iniziato all'arte della guerra. Però lui rifiuta il suo potere e rifiuta di usarlo, soprattutto se di mezzo ci sono quei paesani rozzi che lo darebbero volentieri in pasto a chi lo sta cercando pur di levarselo di torno. La foresta è parte viva e presente del libro, fa parte della schiera dei personaggi tanto quanto Cahan & Co., fornisce energia, sostegno e protezione a chi sa come chiederglieli, la gente bigotta ha paura anche solo a pensare di metterci piede e al pensiero che qualcuno viva al di là di essa, ma saranno costretti a fare pace col loro cervello per salvare la propria vita.

I problemi per me si hanno soprattutto nel primo 25% e nell'ultimo 10% circa. L'ultimo 10% problematico è dato da un problema mio, le mie energie mentali sono crollate come succede spesso d'estate, mi sono fatta prendere dall'ansia di finirlo e ho iniziato a saltare le pagine. Non fate come me, leggere dev'essere un piacere e se non vi divertite a farlo non fatelo.

Però voglio concentrarmi sul primo quarto di libro, quel primo quarto di libro che secondo me, amplificato e approfondito a dovere, avrebbe potuto dare vita non dico per forza a un intero romanzo ma a una novella prequel come minimo. Avrebbe fatto capire meglio il passato di Cahan coi monaci, il suo modo di pensare (che comunque nel corso del tempo emerge in maniera più chiara, ma sulle prime stranisce), come sia possibile che cambia idea ogni cinque minuti eccetera. I passaggi da una scena all'altra sono netti, come dei tagli cinematografici che su carta reggono male il ritmo della storia, per poi passare a scene in cui ti iper descrive tutto, dalle foglie mosse dal vento alla luce che filtra dalla cupola di alberi. Che per carità, sono immagini stupende, se non avessi paura di non riuscire più ad uscire e di trovarmi di fronte bestie strane mi trasferirei in una foresta tipo subito, però rendono il ritmo molto zoppicante. Però dal 25% in avanti la trama diventa più lineare e comprensibile (ed è anche per questo che vorrei che la prima parte fosse stata staccata dal resto del libro), rendendo il libro una delle migliori letture migliori del mese.

Speciale tre anni di blog. Retelling: gli scrittori sono davvero tenuti all'originalità?

Questo post avrei potuto intitolarlo "storia di come Marty aveva scritto più di mezzo articolo e poi l'ha cancellato per impostarlo...

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